
In Etiopia, ogni singolo pasto è un racconto. Non si mangia solo per nutrirsi, ma per onorare la terra, creare legami, tramandare tradizioni. Il cibo non è solo un nutrimento, è un linguaggio che unisce. Sedersi a tavola con un’etnia dell’Omo o convivere un injera a Lalibela è molto più che “provare semplici sapori”: è entrare, con rispetto e lentezza, nel cuore vivo di una cultura.
Mangiare con le mani, mangiare con il cuore
In Etiopia si mangia con le mani. Ma non è solo una questione pratica: è un vero e proprio invito al contatto umano. Il gesto del gursha, in cui si imbocca l’altro con un boccone, esprime fiducia a affetto. In molte altre culture vanno oltre alle parole. È una forma di connessione profonda, che fa del pasto un momento di condivisione.
L’injera, la “spugna” acida fatta con il teff, è il centro di ogni tavola. Serve da piatto, da cucchiaio, da contenitore per mille sapori. Il suo disco poroso si appoggiano da zighinì spezzati, legumi stufati, verdure colorate. Ogni regione ha le sue varianti. Ogni etnia il suo modo di presentarla agli altri.

Dal Nord cristiano al Sud tribale: i sapori dell’identità
Nel Nord, tra Axum e Gondar, la cucina si intreccia con la religione ortodossa. I giorni di digiuno che sono più di 180, influenzano molto la dieta: niente carne o latticini, ma piatti ricchi di legumi, cereali, spezie e verdure. Il Shiro wat, una crema di ceci speziata o il misir, lenticchie rosse al berberè, sono solo alcuni dei tanti piatti rituali.
Nel Sud, tra le tribù dei Hamer e i Surma è estremamente legato alla pastorizia. Il latte è sacro. Il sangue bovino è parte dei rituali, i pasti sono speso sobri, ma simbolicamente densi. Un bicchiere di latte offerto a un ospite è segno di accoglienza e profondità, anche laddove le risorse sono scarse.

Il tej e la cerimonia del caffè: bere come rito
In Etiopia anche il bere è considerato sacro, ricco di simbolismo e lentezza. È un momento che unisce, che segna la fine del duro lavoro, l’inizio della festa o semplicemente un gesto di accoglienza.
Il tej, vino al miele fermentato, ha un gusto ruvido e dolce allo stesso tempo. Si beve di solito durante le celebrazioni, soprattutto nei tejbet, locali informali spesso nascosti nell’ombra, dove la luce diventa e il profumo intenso crea un’atmosfera sospesa nel tempo. Il tej che scorre lento come la musica che lo accompagna, e ogni singolo sorso racconta una tradizione profonda.
Ancora più intima e la favolosa cerimonia del caffè, uno dei riti quotidiani più profondi della cultura etiope. Non è semplicemente una pausa, ma una vera liturgia sociale, divisa in gesti precisi e da un tempo che scorre lentamente. I chicchi vengono tostati sul momento, pestati a mano, fatti bollire in una piccola jebena di terracotta per ben tre volte. Tre tazze, tre nomi: abol, tona, baraka- l’ultima porta con sé la benedizione.
Durante questa cerimonia, si parla, si ascolta, si è presenti. È un invito all’incontro ed all’apertura, alla pace. E quando ti offrono il primo caffè, non è solo un momento di condivisione: stanno aprendo la porta della loro casa e del loro cuore.

Cibo come chiave d’accesso alla cultura
Ogni piatto racconta una storia diversa. E in Etiopia, queste storie sono scritte con le spezie, con gesti antichi e momenti di silenzi condivisi. Il cibo non è solo un piatto che manifesta la cultura del paese: è un codice diretto e profondo.
Assaporare l’injera con le mani, accettare un gursha da uno sconosciuto, sorseggiare il caffè appena fatto: sono piccoli atti che aprono mondi. Non servono molte parole per comprendere che si sta partecipando a qualcosa di reale.
Ogni etnia esprime la propria visione del mondo attraverso ciò che porta tavola. Le scelte alimentari riflettono valori, credenze, rapporti con la terra e con il sacro.
È per questo che, in un viaggio consapevole, il cibo diventa una vera e propria porta d’ingresso. Una chiave per comprendere veramente l’altro, per entrare lentamente nelle abitudini quotidiane.
In Etiopia, sedersi a tavola è il primo passaggio per imparare ad ascoltare. E ad appartenere.